Per poter comprendere gli ultimi tumultuosi eventi legati all’assegno divorzile, occorre fare un passo indietro e delineare l’iter evolutivo che conduce fino all’ultima, tanto attesa, pronuncia della Corte di Cassazione a Sezione Unite dell’ 11 Luglio.
Partiamo da ciò che stabilisce l’art. 5 della Legge 898/1970 (Legge su divorzio) sull’assegno divorzile:
Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
In principio vigeva il parametro del precedente tenore di vita: l’orientamento più consolidato della Cassazione è sempre stato quello in base al quale si riteneva sussistente il criterio della «mancanza dei mezzi adeguati» quando il coniuge, pur dotato di reddito, era comunque incapace di mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio.
La scossa a tale saldo principio, giunge con l’ormai famosa (o famigerata, dipende dai punti di vista) sentenza della Suprema Corte, sez. I, 10 maggio 2017 n. 11504, la quale ha stabilito che all’ex coniuge non spetta, in sede di divorzio, l’assegno di mantenimento, quando il medesimo, pur non essendo in grado di mantenere il tenore di vita matrimoniale, sia comunque autosufficiente dal punto di vista economico. Al riguardo, la Corte ha osservato che il matrimonio non può tradursi in una «sistemazione a vita». Dunque, dopo anni e anni di riconoscimenti di lauti assegni divorzili, con tale pronuncia, la Corte cancella con un colpo di spugna un saldo riferimento per migliaia di ex coniugi, con il plauso di quanti mensilmente vedevano impoverirsi le proprie tasche in favore dell’ex coniuge.
A raddrizzare il tiro, forse un po’ troppo audace, ci ha pensato l’ultima pronuncia a Sezione Unite del 11 luglio 2018, n. 18287, la quale afferma che per il calcolo dell’assegno di divorzio, occorre tenere in considerazione non semplicemente il tenore di vita, ma molteplici fattori, attraverso un criterio che la Corte definisce “composito”, ossia un criterio che attui una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto. La sentenza afferma che il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che possono incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale.
Un passo indietro o una scelta di buonsenso?
La risposta non è semplice ma non può prescindere da una riflessione: la giurisprudenza è in continua evoluzione, ma non può ignorare la realtà del nostro Paese nella quale, ancora oggi, la figura femminile è spesso sacrificata all’interno della famiglia. Certo, il risvolto della medaglia, però, è di alimentare ancor di più un atteggiamento passivo e assistenzialistico a scapito dell’emancipazione femminile.
La parità non passa forse dalla conquista dell’indipendenza?